Prefazione
Vittorio Di Ruocco, nella silloge «Cecità», propone un canto d'amore sommesso e struggente che si eleva al di sopra delle umane vicende e delle oscure stagioni del vivere, capace di penetrare nel profondo del cuore.
Durante il processo lirico si avverte chiaramente il desiderio di scardinare il dolore, come a passeggiare sulle parole sconosciute, per spiegare ciò che "non ha mai saputo dire", ed il fuoco del rancore, ormai, ha raggelato la dolcezza nei "torbidi pensieri della notte".
La donna amata era "oasi di mistero", emanava profumo d'amore, i suoi occhi erano "gocce di cielo", era presenza luminosa, lampo che trafiggeva le pene, linfa del desiderio: lei scivolava nel suo cuore attraverso i giorni, rappresentava una "salvifica presenza", capace di trascinarlo, con la sua bellezza, nel "gorgo luminoso", ed ora non rimane che il disperato tentativo di lenire le pene, magari ripensando ad una sua carezza, un suo sorriso, per tentare di dissolvere il dolore struggente che attanaglia l’animo. Ecco allora che le "vorticose spire del passato" avvolgono completamente e diventa difficile riuscire a ritrovare lo spiraglio della salvezza mentre si è assediati da "muri invalicati di silenzio", quando la vita diventa un turbine dove la speranza fatica a sopravvivere.
Il poeta pare "sfuggito alla voragine del tempo", come disperso in una dimensione sospesa, dimenticata ormai la "fiamma ardente", proprio quando lei sembrava a "un passo dal suo cuore" e pareva, con il suo sguardo, poter trasformare le pene nel dolce "suono della vita che rinasce".
Il sogno infranto trascina nelle "stagioni morenti" e pare non esservi nulla che possa lenire il dolore del poeta "vagante" in una dimensione sofferta, come "anima dannata" in cerca di un flebile spiraglio che annunci la fine del supplizio: le "croniche illusioni" si miscelano con i dolenti silenzi, disperso e, al contempo, aggrappato ad un sogno, fino decretare "vivo morente al gelo senza fine".
Nel costante fluire della visione lirica il poeta si abbandona e lascia trasportare la sua anima nel simbolico labirinto della donna amata, nel costante susseguirsi di inquietudine e di solitudine che gelano il cuore, come a camminare sul "vuoto dell’esistenza", fino a confessare "non c’è rifugio per la mia anima" affranta e perduta.
La visione poetica di Vittorio Di Ruocco si fa viva e pulsante, lo slancio lirico arde in fondo al cuore, oltrepassando "la notte dolente e triste": la sua Parola diventa fiamma rara nelle "notti stellate" e lo scrigno dei ricordi si erge a canto d'amore che diventa vertigine immane, mentre la dolce amarezza del disincanto si impossessa del cuore e dell’anima.
Lo sguardo sulla realtà presente si trasforma in turbine della memoria, e solo la linfa poetica, salvifico dono lirico, conduce oltre la memoria, oltre il tempo, divampando nella misteriosa scintilla della "verità del cuore".
Massimo Barile
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CECITÀ
Quando ritornerai per perdonarmi
dalle funeste nubi dell’oblio
mi troverai morente ad invocare
gli dei custodi della tua bellezza.
Sì, riderai di me delle mie rughe
scavate come solchi dal mio pianto
aperte come tanti lucernai.
Contro il mio sguardo fisso e irriverente
ti sentirai bruciare in fondo al cuore
ti smarrirai nel buio che mi circonda
ti sembrerà una notte senza fine.
E quando gli occhi vitrei e indifferenti
ti squarceranno come una mannaia
rimpiangerai con lacrime pietose
l’aurora che riuscimmo a immaginare.
Ormai smarrito senza una promessa
perduto nel più tetro degli abissi
afferro la tua voce luminosa
come se fosse l’ultima speranza.
Cado ai tuoi piedi come un idolatra
cercando fiori nelle tue parole,
e immagino il tuo viso ancora intatto
sfuggito alla voragine del tempo,
di nuovo tempio della mia passione.
Ah quanto è amaro questo mio rimpianto,
avessi avuto l’arco dell’amore
avrei scoccato un dardo disperato
e spinto la mia sorte alla tua accanto.
Ma già che sei venuta a dissetarmi
al termine del triste mio cammino
potrò morire come il prigioniero
che ha ritrovato la sua libertà.