Manuale di etica marziale

Autore : Joe Santangelo
Anno di produzione : 2015
Casa Editrice : Absolutely Free
Genere letterario : Saggistica - Motivazionale
Formato : Cartaceo
Quarta di copertina
Altre Notizie : PRIME PAGINE


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OBIETTIVI

Obbedire: l’attività di imporre a sé stessi istruzioni impartite genericamente dall'esterno e di

eseguirle senza sindacarle, con rigore e ottemperanza. L'obbedienza è una delle prerogative più'

significative del soldato. Anche nel mondo impiegatizio questo concetto e assurto a principio inviolabile: al

subordinato sono espressamente richiesti obbligo di "obbedienza e fedeltà" ("il CHI"), tutti gli altri doveri

essendo corollari a questi (mansioni, carichi di lavoro, responsabilità: "il COSA"). Obbedisce il servitore al

padrone, il suddito al re, il cittadino all’autorità. In sostanza possiamo ragionevolmente generalizzare

quanto segue: tutti gli ambiti nei quali il perseguimento di un obiettivo (guerra/lucro/stabilità) prevale su

considerazioni di altra natura (etica, morale, cultura, individualità), l'obbedienza è elemento determinante

e come tale presente in ogni forma possibile di strategia. L'obbedienza è qualcosa di diverso rispetto alla

"sudditanza": l'essere sudditi porta con sé il concetto della remissività, dell'essere supini, rassegnati e

rinunciatari. L'obbedienza è altro, è un valore. L'etimo del termine "obbedienza" – in una delle possibili

interpretazioni – ce ne consegna l'autentico significato: "ob", particella che introduce il complemento di

causa, ed "eo", prima persona singolare del verbo "ire", coniugata al presente indicativo. Obbedire – in

definitiva – significa "andare a causa di", ovvero, estensivamente "impegnarsi al fine di". Il combattente

non sceglie, obbedisce. Obbedire a cosa? Obbedire a una norma, al codice tecnico, al codice etico: obbedire

alle istruzioni del Maestro? No, niente di tutto questo: il combattente non è un soldato, ma un Guerriero. E

allora di quale obbedienza stiamo parlando?

Il Combattente obbedisce al Combattimento.

C’è una messe di regolamenti da tenere in considerazione, un complesso di norme

comportamentali, igieniche e alimentari. C’è un codice tecnico ferreo dal quale è impossibile prescindere.

C’è una deontologia, una serie di obblighi fisiologici cui ispirare la condotta dell’allenamento,

dell’addestramento, della preparazione psicofisica all’incontro. C’è un essere umano da tenere in salute e in

corretto stato di forma, un individuo all’interno del quale devono circolare idee e immagini di sforzo,

sacrificio e vittoria, visioni di ciò che accadrà. Ma non è ancora sufficiente. Non è ancora questa “la norma”.

Quanto spesso ci accade di trovarci dinanzi a una situazione che prevede varie soluzioni? Quante volte

abbiamo pensato di possedere più opzioni? Quante volte abbiamo avuto la percezione di “dover decidere”?

Nel Combattimento non si decide nulla, nel Combattimento si obbedisce. Ogni singola fase della lotta

postula una ben precisa risposta. Ogni circostanza tecnico/tattica invoca una soluzione specifica, la più

efficace, la più congeniale, la migliore. “Ogni vuoto cerca il suo pieno”, ricorda un antico adagio

Thailandese, intendendo puntualizzare che ogni circostanza che si dovesse verificare durante un match

dev’essere affrontata applicando una soluzione che non c’è il tempo né il modo di “scegliere”. Il

combattente non decide, egli obbedisce. Chi “decide” – in verità – “cade” (decidere, latino: “de” + “cado” =

cadere; per estensione: cadere da una delle due parti, ovvero rimanere negli opposti), mentre il

combattente obbedisce, nel senso che muove i propri passi verso un obiettivo prestabilito che è quello

contingente di vincere lo scontro. Il combattente sceglie “ab initio”, direbbero i latini: egli sceglie la

disciplina e successivamente sceglie ancora di diventare un combattente, ma da quel momento in poi egli

non deciderà più nulla, egli dovrà “obbedire”. Nella teoria del combattimento, quanto più ci si allontana

dalla prospettiva della “decisione”, tanto più elevato sarà il grado di effettiva padronanza ed efficacia

durante il combattimento. Nelle fasi iniziali si ha la percezione di poter scegliere una tecnica, una soluzione

(primi dieci anni di pratica), ma successivamente si verificherà – celata ai nostri occhi, quasi inafferrabile

con le parole e con le immagini – una propensione a “lasciarsi guidare” dalle circostanze. È una fase

particolarmente delicata della pratica, perché lascia il praticante un po’ perplesso, confuso. Ebbene sta

accadendo: il combattimento sta occupando l’uomo, lo sta trasformando pian piano, con pazienza e

sapienza, senza che lui ne abbia consapevolezza. È una specie di battesimo: si trova ancora nella condizione

di vanità di “voler” decidere come impostare il combattimento, ma una logica istintiva inafferrabile tende a

prendere il sopravvento. E dopo tante prove, dopo l’esperienza matura di innumerevoli occasioni in cui il

combattimento avrà preso la piega giusta “malgrado” quella sensazione di impotenza, una nuova fase si

aprirà, autoritaria: giungerà una consapevolezza radicale dell’incapacità di scegliere, dell’efficacia assoluta

dell’obbedienza. “Fare ciò che è giusto fare”, laddove per “giusto” s’intende ciò che contemporaneamente

è più congruo da un punto di vista tecnico, tattico, del tempismo, dell’energia, della rabbia. Questo stato di

profonda consapevolezza – il Pragmatismo Marziale che questo volume intende rivelare – è prerogativa del

Combattente esperto, dell’atleta completo, di quell’individuo che conosce il limite della scelta personale (la

decisione”) e sa affidarsi con umiltà al proprio Maestro: il Combattimento.

Ma per applicare efficacemente la scelta giusta al momento giusto, c’è una richiesta fondamentale

che dev’essere esaudita: il combattente deve proiettare sul campo l’azione “malgrado” i suggerimenti degli

altri suoi organismi di governo: il corpo (con tutte le sue esigenze fisiologiche e la sua limitata capacità di

sviluppare lavoro ed energia), l’emotività (che di frequente “frena” anziché “accelerare”), la paura (che

distrugge anche la più onorevole delle intenzioni), l’istinto (che generalmente ci tira fuori dai guai, ma che

altrettanto spesso dovrebbe essere imbrigliato come un cavallo), il giudizio (che troppo spesso è

pregiudizio”). Il punto – in sostanza – è che il “corpo” non deve interferire: il corpo deve “obbedire”. È la

mente, il Generale, e il corpo la sua Armata: il Pragmatismo Marziale educa a questo tipo di rapporto di

forza e la sua efficacia dipende dall’effettiva relazione che intercorre tra mente e corpo. L’esercizio

dell’Autocontrollo è lo strumento, la supremazia della Psiche sul Soma è l’obiettivo, che a sua volta è

propedeutico all’obbedienza. Senza disciplina non v’è autocontrollo, senza quest’ultimo non c’è strategia

che tenga e la più consistente delle Armate può perdere una guerra, perché gli uomini non hanno saputo

applicare le istruzioni impartite dal suo Generale. Un Combattente puro è tutto questo: Generale e Armata.

È questo il segreto di una vittoria: sapere ciò che deve essere fatto e farlo, senza che nessun altro

interferisca nell’azione e influenzi il destino di quell’azione. Rabbia, fatica, stanchezza, vanità, paura,

presunzione di superiorità e soprattutto certezza del risultato dello scontro: nulla di tutto questo può

rientrare nell’equazione, a nessuna emozione dev’essere concesso diritto di espressione: è così che il

Combattente può obbedire a sé stesso. Nessun compromesso, nessuna pietà: chi governa un plotone deve

pensare al risultato finale, non a proteggere il singolo soldato. Così è possibile conseguire una vittoria

(nell’accezione più alta: la sopravvivenza) finanche sacrificando un soldato (riportando la frattura di un arto,

per esempio).

Ma prima ancora dell’adempimento, occorre conoscere l’istruzione e prima di questa il Generale

deve conoscere la situazione e inquadrarla in uno scenario chiaro e a lui comprensibile. Qualunque fase del

combattimento è collocabile all’interno di uno schema abbastanza semplice, ma altrettanto preciso, una

sorta di matrice logica che sintetizza la fenomenologia del combattimento tripartendola come di seguito: a)

routine – b) disturbo – c) emergenza. Tutte le situazioni potenzialmente verificabili all’interno di una lotta o

di un combattimento o di un match, sono riconducibili a una di queste fasi. Per amore di semplificazione i

teorici del combattimento hanno redatto schemi particolari che permettono di ricondurre alcuni parametri

tipici del combattimento a ciascuno di questi elementi, in un rapporto di corrispondenza “univoco” (nel

senso che l’elemento A è riconducibile al segmento X, ma non necessariamente avviene il contrario). Gli

elementi che concorrono a “spiegare” la permanenza in una delle tre fasi sono i seguenti: distanza tra i due

contendenti, intenzionalità dell’avversario, grado di estensione del corpo nello spazio, fotogramma dello

stato dello scontro (condizione di parità o di non-parità, a vantaggio di uno dei due), grado di espressione

delle energie (stato di forma), momento pregresso (cosa è appena accaduto), temperamento

dell’avversario, condizione dell’ambiente esterno, limitazioni derivanti dal regolamento (se ne esiste uno),

fattore-tempo (se è uno dei limiti inclusi nel regolamento), fattore spazio (idem), caratteristiche fisiche dei

due contendenti. Si tratta di elementi che – trasposti a livelli differenti – possono essere applicati in ambiti

diversi: strategia, guerra, marketing, relazioni interpersonali. Essenzialmente il teorema RDE (Routine-

Disturbo-Emergenza) basa la sua indiscussa fondatezza secondo cui “l’improvviso ha sempre bisogno di una

lunga preparazione” per verificarsi nella realtà. Non esistono “fatti improvvisi” – in sostanza, esistono

piuttosto “sintomi rivelatori di un attacco” che il combattente attento – o lo stratega o il capitano d’impresa

– è tenuto a “raccogliere” dallo scenario circostante, a interpretarli e a suggerire – immediata – la corretta

reazione. Con lo studio della realtà – propedeutico all’azione, ma contestuale a essa, quando l’esperienza lo

rende possibile, la prima percezione del Pragmatismo Marziale può dirsi completa. Conoscere, sapere, fare.

Il passo successivo è ancora più arduo: essere, sapere, fare, avere (dalle parole del maestro S.E. Naadd,

capo guerriero nord americano).

Sport da combattimento e vita. Ma ce di più. Che si tratti di lavoro o tecniche di lotta, sfide quotidiane o veri match agonistici ci si ritrova sempre di fronte avversari, quantomeno ostacoli. Muovendo dai principi basilari dello Shindô, filosofia da cui traggono origine le più comuni tattiche di combattimento, questo volume mira a proporsi come un utile strumento didattico e concettuale. Attraverso l'analisi e la ricostruzione anche pratica di tale filosofia, l'autore pone le fondamenta per un'attitudine etica, una corretta prospettiva per affrontare se stessi e fronteggiarsi in ogni contesto competitivo. La scoperta di quelle strategie esistenziali che permettono all'uomo e al discente di arti marziali di coniugare in simbiosi concetti e azioni volgendo verso obiettivi positivi e di vittoria. Perché ogni combattimento ha inizio prima e dentro. Nei nostri pensieri di paura e di successo. Il gesto, l'esecuzione sono solamente il concreto di queste immagini mentali, la loro parte più visibile e immediata.

 

«Ho applicato sempre le stesse logiche, ho allenato i miei muscoli, la mia mente, ho affinato la mia capacità di percezione e di interpretazione, ho imparato ad applicarmi a contesti nuovi con la pretesa di capire, di sperimentare, di riuscire.

E il mio insegnante, avaro di elogi, ma generoso nell’elargire ricompense, silenzioso nell’impartire istruzioni, ma assordante nel rimproverare i miei errori, è stato il mio sport.

Il mio maestro è stato l’Arte Marziale.

 

L’attività del Combattente puro è quella del semplificare. Percepire in tempi brevi le circostanze (spazio, tempo, ritmo), verificare le condizioni (tipologia dell’avversario, capacità tecnica, potenzialità nell’allungo), escogitare la soluzione più rapida ed efficace e agire di conseguenza.

Nell’Arte Marziale “pensare” significa “agire”».